sabato 14 settembre 2019

#LeOreconTolkien: creare un intero universo con "Le due torri"

Giunge un po' in ritardo il secondo appuntamento con #LeOreconTolkien, in cui ti aggiorno più che posso sulla lettura dei tre volumi de Il Signore degli Anelli (ti reindirizzo a questo primissimo articolo in cui ti spiego il progetto).

Se l'effetto di essermi avvicinata a questo grande romanzo dopo Lo Hobbit era stato disorientante e impegnativo, con la lettura del secondo volume (The Two Towers) sono andata verso un netto miglioramento della situazione.

Non ti nascondo che intraprendere la lettura di questo grande romanzo in inglese non è cosa facile, perché per quanto possa conoscere e maneggiare la lingua mi risulta sempre più complesso tenere alta la concentrazione durante la lettura, soprattutto se si tratta di Tolkien. Non è impossibile, ma è comunque impegnativo come leggere qualsiasi libro in qualsiasi altra lingua che non sia la nostra.

Il problema non è stato comunque la lingua, se non per il fatto che mi sono presa più tempo per leggere tutto con attenzione, perché questo secondo volume, al contrario del primo, è decisamente più complesso sotto vari punti di vista.


La struttura narrativa del secondo volume

Il volume si apre con il Libro III con il quale ci accorgiamo di un elemento che ritroveremo da ora per tutto il romanzo, ovvero la divisione tra la narrazione del percorso di ciò che rimane della Compagnia dell'Anello - Aragorn, Legolas e Gimli, ai quali poi si uniranno Pipino, Merry e Gandalf - e la narrazione del percorso di Frodo e Sam. Quindi, non ci troviamo di fronte ad una narrazione sullo stile di Manzoni, in cui le avventure separate dei personaggi si intrecciano nella narrazione di uno stesso capitolo, bensì proprio il contrario.

Un tipo di narrazione come quella che Tolkien ha deciso di usare ne Il Signore degli Anelli Ã¨ di sicuro più impegnativa, soprattutto nel Libro III. Se nel volume de La compagnia dell'Anello il lettore si era trovato di fronte ad un continuo movimento dell'azione alternato a profonde riflessioni da parte dei personaggi - vedi ne Il consiglio di Elrond -, nel Libro III de Le due torri troviamo inizialmente poca azione e molte, moltissime riflessioni. Il personaggio più tormentato in questo momento è sicuramente Aragorn, il quale sente pesare su di sé non solo la responsabilità della buona riuscita della missione da parte di Frodo ma anche il salvataggio dei due hobbit, Merry e Pipino, caduti nelle mani degli orrendi Uruk-hai, gli orchi di Saruman.

Verso la fine di questo Libro III l'azione torna al suo apice in due dei momenti più belli del secondo volume: la battaglia del Fosso di Helm - la prima, epica descrizione di una battaglia dell'intero romanzo - e l'incontro con Saruman sconfitto nella sua Isengard ormai distrutta dagli Ent. Riporto qui sotto due passi tratti dal capitolo "Helm's Deep", "Il fosso di Helm", nel quale viene narrata la famosa battaglia.

"The sky was now quickly clearing and the sinking moon was shining brightly. But the light brought little hope to the Riders of the Mark [la battaglia è combattuta in piena notte, elemento che arricchisce la narrazione di epicità e tumulto dello sconosciuto]. [...] Orcs and hillmen swarmed about its feet from end to end. Ropes with grappling hooks were hurled over the parapet faster than men could cut them or fling them back."

"Il cielo schiariva rapidamente e la luna che si accingeva a coricarsi brillava intensamente. Ma la luce portò poca speranza ai Cavalieri del Mark. [...] Orchi e Uomini delle montagne brulicavano da un'estremità all'altra della cinta. Corde con ramponi venivano lanciate al di qua del parapetto con tale destrezza e rapidità che i combattenti non facevano in tempo a tagliarle né a respingerle."

Per citare il titolo di un famoso film di qualche anno fa...e alla fine arriva Gandalf:

"There suddenly upon a ridge appeared a rider, clad in white, shining in the rising sun. Over the low hills the horns were sounding. Behind him, hastening down the long slopes, were a thousand men on foot; their swords were in their hands. Amid them strode a man tall and strong. His shield was red. As he came to the valley's brink, he set to his lips a great black horn and blew a ringing blast."

"Ivi improvvisamente su una cresta apparve un cavaliere biancovestito, e splendente nel sole appena nato. Sui colli più bassi squillavano corni. Sui lunghi declivi alle sue spalle arrivavano a piedi mille Uomini brandendo la spada. Fra loro incedeva un Uomo alto e possente. Il suo scudo era rosso. Giunto all'orlo della vallata, si portò alle labbra un grande corno nero e ne trasse uno squillo vibrante."

Nel Libro IV l'azione è diluita in maniera più movimentata nella narrazione ed è qui che i lettori iniziano a rendersi conto del fardello che Frodo deve portare fino al Monte Fato. E' come se la narrazione di questo peso che inizia a farsi sentire sia riflessa nelle lande desolate che Frodo, Sam e Gollum - che si è unito a loro all'inizio del libro - attraversano.

Un'attenzione particolare ai personaggi


Per quel che riguarda il Libro IV, ma più in generale tutto il secondo volume, uno dei temi ricorrenti nella narrazione è sicuramente quello della crescita dei personaggi. Molti di loro prendono sempre più coscienza di loro stessi, delle loro capacità e responsabilità via via che il viaggio si fa sempre più complesso.

Aragorn, ad esempio, ha un ruolo secondario rispetto a Gandalf in termini di guida fino alla caduta del mago alle Grotte di Moria. Ne Le due torri, invece, Aragorn è costretto a fare i conti con le sue responsabilità come guida di un gruppo, il che lo porterà ad una consapevolezza tale da poter assumere le sembianze proprie di un Re nell'ultimo volume.

Anche un altro personaggio di minor "statura" intraprende lo stesso cammino. Parlo di Samvise Gamgee, il cui apice di maturazione verrà però raggiunto nel terzo volume, nel quale il personaggio dovrà confrontarsi con pericoli e responsabilità molto importanti. La scena più toccante in cui Sam è indiscusso protagonista è quella in cui Sam si accascia in lacrime sul corpo apparentemente senza vita di Frodo - trafitto da Shelob - e inizia a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare e se proseguire il cammino senza il suo padrone. Il susseguirsi di domande e riflessioni che Sam costruisce nelle pagine successive è a tratti anche comico ma rende alla perfezione la maturazione - esplicita - di questo ingenuo ma fondamentale personaggio.

Tra i personaggi più interessanti di questo secondo volume c'è sicuramente Faramir, che Frodo e Sam incontrano nel Libro IV. L'incontro segna un punto molto importante nella narrazione delle vicende dell'anello: Faramir è il fratello di Boromir, morto subito dopo essere caduto in tentazione e aver desiderato l'anello mettendo a rischio anche la vita di Frodo. In modo molto scaltro Faramir capisce che Frodo nasconde un segreto e, attraverso delle domande mirate, scopre dell'anello. Al contrario di Boromir, però, Faramir per quanto attratto non cede alla tentazione di possederlo e prende, inconsapevolmente, le distanze dal fratello. Pur essendo molto simili fisicamente - al punto che a Pipino per un momento sembra di vedere proprio Boromir - i due fratelli presentano sostanziali differenze caratteriali: Boromir cede alla tentazione dell'anello perché forse troppo ambizioso, al contrario di Faramir che non solo non desidera quella gloria decantata dal fratello ma rivela una nobiltà d'animo che Tolkien descrive in questo modo:
"[...] whatever be his descent from father to son, by some chance the blood of Westernesse runs nearly true in him [Gandalf parla di Denethor, padre di Boromir e Faramir]; as it does in his other son, Faramir, and yet did not in Boromir whom he loved best."
"[...] quali che siano i suoi avi e i suoi padri, per uno strano caso il sangue dell'Ovesturia scorre quasi puro nelle sue vene e in quelle dell'altro suo figlio, Faramir; non così invece in quelle di Boromir, che pur era il suo preferito."
La citazione vuole sottolineare non tanto una discendenza di sangue effettivamente esistente, quanto l'integrità e il valore degli uomini di Númenor (Westernesse) che scorre anche nel sangue di Faramir.
La nobiltà d'animo del personaggio viene dimostrata nel momento in cui rifiuta l'anello:

"But fear no more! I would not take this thing, if it lay by the highway. Not were Minas Tirith falling in ruin and I alone could save her, so, using the weapon of the Dark Lord for her good and my glory. No, I do not wish for such triumph, Frodo son of Drogo."

"Ma non avere più timore! Io non m'impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l'arma dell'Oscuro Signore per il bene della mia città e per la mia gloria. No, non desidero tali trionfi, Frodo figlio di Drogo."

Le lingue della Terra di Mezzo

Le due torri segna un passaggio importante anche per quel che riguarda la creazione di un'intero universo da parte di Tolkien. A mano a mano che si va avanti con la lettura si iniziano a notare differenze sostanziali nelle descrizioni che vengono fatte della Terra di Mezzo: come in universo verosimile, le terre e i popoli che la abitano si caratterizzano per linguaggio, usi e costumi. Il primo aspetto è quello che ho trovato più interessante e che avevo notato già durante la lettura del primo volume, nel quale si possono vedere le differenze linguistiche tra i popoli che abitano la Terra di Mezzo da un punto di vista scritto - vedi l'incisione nell'Anello che Gandalf spiega essere scritta nella lingua di Mordor, il Linguaggio Nero (Black Speech).

Ne Le due torri i diversi linguaggi e le differenze tra essi vengono alla luce nel loro uso abituale, ovvero ne facciamo esperienza attraverso gli stessi personaggi. Si iniziano a notare non solo veri e propri linguaggi finzionali creati ad-hoc da Tolkien, ma a livello narrativo l'autore riesce a trasformarli nei vari aspetti linguistici dell'inglese moderno o quello più antico. Mi spiego meglio:

Da un punto di vista della struttura della storia, nelle Appendici Tolkien si pone come autore "finzionale", colui che ha tradotto il famoso Libro Rosso scritto prima da Bilbo, poi completato da Frodo, curato da Sam e tramandato dai discendenti di Pipino e Merry fino ai giorni nostri. Il Tolkien "autore finzionale" spiega nell'Appendice F.II A proposito della traduzione che nel riportare a noi lettori la storia ha dovuto lavorare sul testo originale e tradurlo nell'inglese moderno, rispettando le varie sfumature linguistiche.

Ecco che gli Hobbit parlano il Common Speech (Lingua Corrente), una lingua traslitterata nell'inglese moderno. Nell'Appendice F.II A proposito della traduzione Tolkien ci dice che:

"In questo processo la differenza fra i diversi tipi di Ovestron (Westron) si è inevitabilmente affievolita, malgrado i tentativi di rappresentare tali differenze con variazioni nella nostra lingua; ma la divergenza fra pronuncia e idioma della Contea e Ovestron parlato dagli Elfi o dagli alti Uomini di Gondor era assai maggiore di quanto non risulti da questo libro. Gli Hobbit infatti parlavano per lo più un dialetto rustico, mentre a Gondor e a Rohan era in uso un linguaggio più antico, più puro e formale."
L'inglese dei nani, ovvero il Common Speech che essi parlano in presenza di altre razze, presenta un enunciato "gutturale" e molto aspro; il linguaggio di Rohan assomiglia ad un inglese antico e formale perché come ci dice Tolkien "era abbastanza vicino alla Lingua Corrente e strettamente collegato all'antica lingua degli Hobbit settentrionali, e simile in qualche modo all'arcaico Ovestron."

Il Tolkien autore "vero" (quello esterno al testo, non più finzionale) ha invece creato un vero e proprio impianto linguistico sul quale si appoggia un universo intero. Le lingue che l'autore ha creato sono così ben costruite e articolate anche a livello grammaticale o morfologico da essere del tutto verosimili.


Le traduzioni dei passaggi citati o quelli direttamente riportati in italiano fanno riferimento a J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, 2011. L'edizione è curata da Quirino Principe, l'introduzione è di Elémire Zolla e la traduzione di Vicky Alliata di Villafranca (con la quale non concordo su alcune scelte traduttive, ma questo è tutto un altro discorso...)

5 commenti:

  1. Non mettertici pure tu con la diatriba sulla traduzione della Alliata. EHEH
    Tra pochi giorni esce la nuova traduzione del Fatica e ci si diverte a studiarne le differenze.

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    1. Ciao Andrea!
      Diciamo che ci sono alcune scelte fatte da Alliata che non mi sono piaciute in italiano, vedendo poi la versione originale in inglese mi sembra si sia perso di più di quanto di solito è lecito perdere in traduzione, ma in alcuni casi si tratta anche di gusti personali.
      Sono veramente curiosa, sinceramente, di leggere la traduzione di Fatica e capire come ha lavorato sul testo...soprattutto dopo l'ultima traduzione che ha fatto di Moby Dick. Staremo a vedere!

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    2. E Moby Dick come l'ha tradotto?

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    3. Ti devo deludere dicendoti che non lo so del tutto, perché la traduzione di Moby Dick che sto leggendo io è di Alessandro Ceni. L'unica cosa di cui sono certa è che, anche in Moby Dick, Fatica abbia optato per un linguaggio molto lontano da quello corrente. Per molti è una traduzione molto bella da leggere (alcuni dicono addirittura migliore di quella storica di Pavese), per altri risulta molto difficile a causa del linguaggio ricercato.
      Comunque, se ti interessa, tra un po' di tempo conto di far partire un piccolo progetto per analizzare il più possibile oggettivamente la traduzione di Fatica di Tolkien.

      Un saluto!

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