mercoledì 7 febbraio 2024

febbraio 07, 2024

L'occasione sprecata della mostra su J. R. R. Tolkien


La storia della letteratura è piena di curiosità inspiegabili. Scrittori che vengono dimenticati perché il loro contributo è ritenuto poco rilevante nella storia culturale di un paese, altri che vengono fraintesi totalmente o interpretati sotto la lente sbagliata. Inspiegabile è anche il caso che riguarda J. R. R. Tolkien, scrittore, filologo, linguista inglese, padre di Il signore degli anelli, Lo Hobbit e una lunga serie di scritti sulla celebre Terra di Mezzo. Quando si tratta di Tolkien i discorsi si fanno un po’ complicati. La sua stessa figura di uomo e scrittore ci mette di fronte a questioni che intersecano la vita con la letteratura, se siamo in grado di cogliere queste sfumature. Tuttavia, quando si parla di Tolkien in Italia il discorso si complica ulteriormente e la letteratura viene messa quasi del tutto da parte. 

Qualche settimana fa, infatti, sono stata alla mostra “Tolkien. Uomo. Professore. Autore” allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (GNAM) di Roma, ovvero l’esempio lampante del complicato rapporto che il nostro paese ha con l’autore e della ormai lunga, lunghissima strumentalizzazione che una parte politica ne ha fatto dagli anni settanta a oggi. Per quel che mi riguarda, la mostra presenta due problematicità molto gravi che dimostrano non solo l’incapacità italiana (e dell’attuale governo) di allestire un’esposizione che tratta di letteratura, ma anche un ripetuto e perseverante sfruttamento ormai ben noto di Tolkien da parte di un ramo della nostra politica.

Partiamo dall’inizio, ignorando per un istante la direzione ideologica che si è voluto far prendere volutamente a questa mostra (costata 250.000 euro di fondi pubblici). La prima difficoltà è l’effetto stordente delle sale espositive, forse dovuto anche all’organizzazione concettuale della Galleria Nazionale. Le opere fisse esposte alla GNAM si adattano perfettamente alla concezione delle sale, le quali non hanno un vero e proprio percorso prestabilito e offrono un’esperienza museale totalmente diversa e contemporanea, per l’appunto, rispetto a un museo tradizionale. Tuttavia, le mostre temporanee non si adattano con la stessa facilità agli spazi espositivi perché spesso richiedono un percorso tracciato e chiaro per comprendere concettualmente ciò che viene esposto. Sfortunatamente, gli spazi espositivi della GNAM non consentono del tutto un’esperienza del genere.

Al di là della difficoltà, mi rendo conto probabilmente soggettiva, nel concepire una mostra temporanea alla Galleria Nazionale, mi appoggio alle parole di Wu Ming per cercare di capire perché la mostra non funziona. Alla mostra manca un allestitore. Questa raccoglie, infatti, una serie di oggetti soprattutto letterari, che sembrano essere messi lì per puro caso. Raccolte di cimeli, libri da collezione, quadri, illustrazioni e giochi (perché sì, c’è una sala dedicata al “fenomeno pop” de Il signore degli anelli) privi di un contesto, di una spiegazione e tantomeno di senso. Le sezioni che costituiscono la mostra (quelle del titolo altisonante “Uomo. Professore. Autore.”) sono piuttosto sbilanciate e non hanno a che vedere molto con le premesse della mostra stessa.

Non si percepisce una cura dedicata all’approfondimento di parti che dovrebbero essere fondamentali
: lo studio filologico di Tolkien sulle lingue  nella sezione “professore”, oltre ad essere stato oggetto di revisioni dopo l’inaugurazione, è quasi assente. La sezione si compone di una carrellata di ritratti degli amici letterari di Tolkien (e anche qui, ce ne sarebbe da dire, ma me lo lascio per dopo), e della scrivania di Tolkien, relegata in una saletta poco illuminata. Qual è il senso di esporre tutte le traduzioni delle opere di Tolkien e le primissime edizioni nella sezione “autore” se poi non viene spiegato nemmeno un po’ la genesi creativa dei suoi scritti più famosi? La mostra, in sintesi, è organizzata male e, come afferma Alessia De Antoniis su Exibart, è priva di una vera strategia espositiva.
Arriviamo, così, al secondo dato problematico di questa mostra. L’incapacità di creare un allestimento che possa chiamarsi tale è dovuta anche alla direzione ideologica che gli organizzatori hanno voluto far prendere alla mostra su Tolkien. Perché è indubbio che il dato su cui ci si è voluti soffermare è quello biografico, un dato che veicola una serie di messaggi cari a una specifica parte politica del nostro paese da più di quarant’anni. Non a caso, la prima sezione presa dal titolo della mostra (quella dedicata all’”Uomo Tolkien”) è la più sviluppata e dettagliata se messa a confronto con le altre due.

Questo dato cozza con le parole del ministro Sangiuliano, che nei confronti della mostra parla del valore “dell’alta letteratura mondiale” (qualsiasi cosa questo significhi…) e del “messaggio metafisico e universale di Tolkien”. La mostra, tuttavia, non mette in risalto niente di tutto ciò, perché di letteratura e di messaggi metafisici non c’è traccia. La mostra si ferma al mero dato biografico e lo rigira a favore del messaggio che si è voluto veicolare, ovvero che Tolkien sia stato fondamentalmente un buon cristiano, un buon padre ma soprattutto un devoto figlio di Dio. Non è un caso, temo, che nella prima sezione si parli quasi esclusivamente del rapporto di Tolkien e della madre con il cattolicesimo, e che nella seconda l’unico dato letterario che poteva essere veicolato, ovvero quello del rapporto con C. S. Lewis sia stato ridotto alla conversione al cattolicesimo di quest’ultimo tramite Tolkien.

Nessuno mette in dubbio la profonda religiosità dell’autore, ma ritengo che esaltare il suo rapporto con la fede cattolica e la fatica di scontrarsi con il mondo brutto e cattivo dell’anglicanesimo sia una decisione che rende la figura di Tolkien monolitica. Come se la sua vita privata fosse legata in modo intrinseco alle sue opere e queste fossero solo il risultato della sua persona. Il rischio di fermarsi al mero dato biografico è che la letteratura sparisce, così come è sparita nella mostra. In più, associare in maniera unidirezionale e netta la biografia di un autore alla sua opera è l’azione più errata che si possa fare da un punto di vista critico-letterario.

Questo è il risultato di una strumentalizzazione sistematica della destra italiana nei confronti di Tolkien
che è, forse, l’autore più usato e abusato a livello ideologico dalla politica. Dagli anni settanta la destra se ne è appropriata elevandolo a baluardo del conservatorismo, della tradizione e della religione cattolica. Senza ombra di dubbio Tolkien non è mai stato un progressista, anzi. Wu Ming e molti altri studiosi dell’autore (perché a loro bisognerebbe chiedere pareri) lo confermano. Tuttavia, associare il conservatorismo di Tolkien all’opera e creare dei parallelismi diretti senza il contraddittorio del testo di cui si parla ha lo stesso valore di studiare l’opera solo attraverso la biografia. In questo senso, l’analisi di Wu Ming è illuminante. I simboli rappresentati da Tolkien sono letti dalla destra in modo a-storico, privati cioè del loro contesto storico e narrativo ed elevati a valori universali e immutabili. Il simbolo, tuttavia, ha la capacità come tale di adattarsi al contesto storico e narrativo nel quale viene inserito e deve essere letto e interpretato di conseguenza. Non solo dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto da quello narrativo.

La direzione politica di questa mostra è chiara ed è resa tale anche dai contributi che le sono stati dati. Non c’è traccia dell’AIST (Associazione Italiana di Studi Tolkeniani), che da anni svolge un lavoro eccellente nella diffusione critica più affidabile possibile dell’opera di Tolkien. Non c’è traccia di studiosi di letteratura che per decenni hanno scritto e parlato di Tolkien (Piero Boitani e Loredana Lipperini sono due esempi, ma la lista è davvero lunga). Gli unici contributi che ci sono, dall’organizzazione, al mancato allestimento passando per gli interventi scritti sul catalogo mostrano chiaramente la formazione di chi ha partecipato. Quasi tutti individui politicamente e culturalmente schierati a destra se non oltre.

La cura dedicata a questa mostra è, in sintesi, alquanto scarsa. Non c’è traccia di ciò che il ministro della cultura ha decantato presentando l’allestimento nei mesi scorsi; non c’è traccia di letteratura né tantomeno viene data un'immagine completa di Tolkien. La mostra “Tolkien. Uomo. Professore. Autore.” è stata la dimostrazione che anche quando si tratta di cultura in Italia non si riesca a creare un allestimento che mostri criticamente il soggetto messo sotto analisi. Un’occasione sprecata di mettere su una mostra dedicata alla letteratura (sì, lo so, sono una sognatrice e un’illusa) e tanti, tantissimi soldi spesi per accontentare fondamentalmente una fetta di pubblico molto precisa. Tolkien e noi lettrici e lettori meritiamo altro.

sabato 20 gennaio 2024

gennaio 20, 2024

Time’s a goon, right? "Il tempo è un bastardo" di Jennifer Egan

Recensione pubblicata sul sito del Centro Studi Americani per il Bright Lights Bookclub.

Esistono universi narrativi inaspettati nei quali i personaggi appaiono nei modi più bizzarri con le loro ossessioni e paure. Mondi in cui la narrazione viene affidata a voci esterne, non del tutto identificate e che hanno, tuttavia, un potere enorme sulla storia che viene raccontata. Questi universi vengono maneggiati da autori di un certo calibro, che non hanno paura a sperimentare con la letteratura. Jennifer Egan è tra questi e Il tempo è un bastardo ne è la prova.

Strutturato come un romanzo frammentario, uno short story cycle in cui storie apparentemente indipendenti creano un flusso di continuità percepibile tra le righe, Il tempo è un bastardo si inserisce in una linea di storie tipiche del nuovo millennio. Personaggi alla deriva, narrazioni che richiamano il postmoderno e, allo stesso tempo, se ne fanno gioco, disturbi che prendono il sopravvento e storie bizzarre incorniciate dagli Stati Uniti più crudeli di sempre.

I personaggi che abitano le storie di Egan sono individui alla deriva, disturbati da ossessioni che non permettono loro di vivere il presente perché troppo concentrati sul proprio passato o su un futuro la cui realizzazione fa paura e paralizza. Sasha e Bennie sono personaggi centrali nella maggior parte delle storie e sembrano essere il perno su cui gira il resto dei capitoli non dedicati direttamente a loro. Anche se non presenti in prima persona, i legami e le relazioni che gli altri personaggi intessono con loro nel passato, nel presente o nel futuro è così forte da tenere tutto legato da un filo invisibile molto sottile. Sono questi stessi personaggi che, attraverso narrazioni inaspettate, prendono la parola e danno voce al loro sbando.

Stephanie lo sapeva. Le sembrava quasi di sentire lo scroscio della speranza che fluiva nel fratello. «E quindi la risposta qual è?» gli chiese.

«Certo, sta per finire tutto,» disse Jules «ma non ancora.»


Si tratta, però, di un’intera generazione priva di prospettive e incapace di guardare al di là dei propri mostri, incapace anche solo di ammettere le proprie debolezze. Le reazioni sono svariate e diversificate. Bennie si rifugia nel lavoro, guarda coloro che una volta erano stati i propri amici (come nel caso di Scotty) con una distanza non solo sociale ma anche emotiva. Sasha scappa da casa e si rifugia in una Napoli pittoresca, dove pensa che nemmeno la sua famiglia la troverà. Il caso vuole che sia Ted Hollander a trovarla, lo zio e l’unico membro del suo nucleo familiare che non la cerca davvero. Tuttavia, le sue ossessioni non la lasceranno mai in pace davvero, perché è proprio con lei e la sua cleptomania che si apre il romanzo.

Egan sembra non lasciare scampo a nessuno. Uno spiraglio compare solo con le nuove generazioni che animano frammentariamente questo romanzo. Capaci, forse, di adattarsi al mondo con nuovi strumenti, Ally, Lincoln, Charlene e Lulu sembrano essere gli unici personaggi ad emergere vittoriosi. Tuttavia, non è la vittoria che i loro genitori o noi lettori ci aspetteremmo: Ally riesce a raccontarsi davvero attraverso una sezione narrata sotto forma di presentazione Power Point; Lincoln è l’unico personaggio a dare voce e importanza ai silenzi, creando così un legame invisibile a livello strutturale tra le sezioni dei romanzi; Charlene parla, si esprime e racconta una verità scomoda e tragica che nessuno sembra voler ammettere se non in punto di morte; Lulu, infine, sembra essere l’unica capace ad ascoltare davvero.

Molti dei personaggi rincorrono ossessivamente i loro sogni, non si rendono conto del tempo che passa sotto i loro occhi perché troppo concentrati su quelli che l’autrice definisce veri e propri “goons”: bastardi, scagnozzi criminali come il tempo infimo e silenzioso che deruba i personaggi della loro giovinezza e innocenza, lasciandoli in una spirale di infinita insoddisfazione.

Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent’anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell’intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?

Il romanzo si intesse così sulle fila del tempo che scorre, passa e non risparmia nessuno. La musica, in questo senso, è il legante e la rappresentazione di come le cose possano cambiare e rovinarsi senza che nessuno se ne accorga. È il ritratto di un’America che non ce la fa, anche quando il romanzo si chiude su una visione di riconciliazione apocalittica in cui New York è condannata dal cambiamento climatico. La musica diventa l’unità di misura per la perdita di innocenza e dell’illusione giovanile dei protagonisti, dall’industria musicale di Bennie alla ripresa improvvisa e bizzarra nel finale che chiude circolarmente il romanzo.

In questo modo si crea un senso di unità non solo tra i capitoli del romanzo ma nell’intero universo narrativo. Tuttavia, è una continuità che viene costantemente messa in discussione. Le sezioni sono narrate in modo diverso, ci sono piani esistenziali inaspettati (come la sezione di Rob e la sua tragica fine), forme diverse come il capitolo del Power Point che sfidano la stessa definizione di narrazione. L’ironia che pervade le storie raccontate in Il tempo è un bastardo rende paradossalmente tutto meno definitivo. I racconti di instabilità rimangono tali: non crollano, non decollano, non mutano più di tanto. Una fine dolce amara.

giovedì 16 febbraio 2023

febbraio 16, 2023

L'ossessione della verità. "La versione della cameriera" di Daniel Woodrell

Alek ha dodici anni e si ritrova a passare l'estate del 1965 in compagnia di sua nonna Alma. Alma non è una figura facile da comprendere, ha lunghi capelli grigi che spazzola con ossessione ogni mattina all'alba e fa voti di mutismo per giorni per poi ricominciare a parlare come nulla fosse. Inoltre nasconde, fino a quell'estate, un passato che la tormenta ancora. Un pomeriggio, con l'arrivo quasi provvidenziale di un temporale, Alma inizia a raccontare al nipote la storia che la tortura da ormai oltre trent'anni. Si tratta dell'esplosione dell'Arbor Dance Hall avvenuta nel 1929 in cui perse la vita, oltre alle tante vittime, anche l'amata sorella Ruby.


La versione della cameriera si apre proprio con il racconto di Alek ormai adulto, che ricorda quel pomeriggio in cui la nonna decide di raccontargli la storia dell'Arbor Dance Hall. Non c'è molto spazio per l'interpretazione dei fatti: la storia dell'esplosione viene liquidata in qualche pagina all'inizio del romanzo, riassunta nei pochi attimi che hanno cambiato per sempre la fittizia cittadina di West Table, in Missouri. Cosa resta dell'esplosione? Sebbene questa storia possa sembrare esaurita nelle prime pagine del libro, il mistero rimane fissato al centro del romanzo dall'inizio alla fine. Silenzioso e calmo come l'occhio del ciclone, il mistero intorno all'esplosione è circondato da testimonianze, racconti sconnessi e ricordi che, come un tornado, scompongono ulteriormente la realtà dei fatti quasi finendo per distruggerla. 


I fatti sono lì, depositati nella memoria dei cittadini di West Table, di Alma ed ereditati da Alek quell'estate del 1965. Definito forse un po' impropriamente southern noir, La versione della cameriera porta con sé ben poco di quelle caratteristiche che hanno reso celebre il romanzo del mistero del sud (e l'ambivalenza del Missouri come stato a metà tra il nord e il sud non aiuta la classificazione), come la stessa centralità di un mistero da risolvere. Infatti, ciò che sconquassa gli eventi e diventa centrale in questo romanzo non è tanto il mistero in sé quanto l'esplorazione della psicologia di un trauma collettivo, ma non solo. Sono le storie che vengono ricucite dal racconto di Alma e dalla rivisitazione di un Alek ormai adulto che mettono insieme i pezzi del romanzo.


La struttura narrativa del romanzo permette di leggere, così, una storia che viene raccontata su diversi piani: quello di Alma verso Alek, Alek dodicenne che assorbe e filtra il racconto dell'esplosione, e un Alek adulto che aggiunge dettagli sul lascito degli eventi del 1929 sulla cittadina. Ciò che, forse, rende la narrazione un po' confusionaria è un ulteriore livello che non sembra avere giustificazione nella storia, ovvero l'inclusione di eventi raccontati e filtrati da personaggi esterni ai due narratori principali. Sebbene venga ribadito più volte che Alek sia il narratore principale e che sia dalla sua coscienza di membro esterno ai fatti che gli eventi dell'esplosione vengono filtrati, ci vengono raccontati fatti di cui lui verosimilmente non potrebbe essere a conoscenza. Fatti che non solo riguardano altri personaggi ma che vengono proprio focalizzati da loro stessi con una narrazione in terza persona. C'è Ruby, che racconta delle sue avventure amorose ai limiti della legalità per l'epoca; c'è Arthur Glencross, una delle figure più rilevanti della cittadina, al quale vengono affidate delle piccole confessioni che confluiranno nella rivelazione finale, ormai quasi irrilevante ai fini del romanzo che l'autore costruisce. Chi è che quindi filtra tutti questi dettagli aggiuntivi?


La confusione, per quanto presente per una buona metà del romanzo, non toglie troppo alla costruzione di suspense e del groviglio di testimonianze che si viene a creare - anche a causa o grazie alla confusione -. L'ossessione di Alma diventa quella di chi legge, ma non tanto per quel che riguarda cosa sia successo realmente la sera dell'esplosione e a chi darne la responsabilità, quanto per una questione di giustizia sociale anche più grande dell'esplosione stessa.


La versione della cameriera, infatti, crea un'intersezione interessante tra le storie dei suoi personaggi e la loro posizione sociale nel piccolo microcosmo di West Table. Come è stato già più volte sottolineato da chi ha scritto di questo romanzo, c'è uno scontro alla base dell'ossessione di Alma per l'esplosione, ovvero quello tra le ingiustizie di chi non ha i mezzi per difendere sé stessi e i propri pari e la corruzione di un sistema che li mette ai margini, favorendo coloro che per soldi e fama possono avere la faccia salvata. Lo scontro, tuttavia, si sviluppa anche in modo positivo, facendo emergere non solo una compassione nei confronti di una donna ormai anziana e, nonostante tutto, determinata ad avere giustizia. Allo stesso tempo, grazie alla negatività delle ingiustizie sociali, emerge timidamente una parte positiva, fatta di una gentilezza fuori dall'ordinario che non conosce differenze sociali.


È da questo bagliore di positività che vengono costruite le basi per poter raccontare nuovamente la storia dell'esplosione dell'Arbor Dance Hall. Sebbene siano passati decenni e la comunità sembri essere guarita da un trauma collettivo incalcolabile, coloro che rimangono ad ascoltare la storia e sé stessi non vengono risparmiati di quel dolore, anche a distanza di anni. L'angelo nero di West Table gli ricorda non solo l'anno dell'esplosione, ma che la verità sarà sempre lì, pronta per essere ascoltata. Con la rivelazione finale, infatti, la storia di Alma, di West Table e dell'esplosione non si esaurisce. Rimarrà lì, per chi avrà voglia di ascoltarla.

mercoledì 25 gennaio 2023

gennaio 25, 2023

Le ore con Virginia. Un progetto di lettura

Se c’è un’autrice che ha sempre ronzato nei miei scaffali da quando ero al liceo è proprio Virginia Woolf. Anche se è sempre stata lì, un po’ per influenze genitoriali, un po’ per una riservata e timida ammirazione che mai all’epoca si è tramutata in una lettura effettiva, il primo vero avvicinamento a Virginia Woolf è stato all’università. Da quando lessi La signora Dalloway ho capito che, sebbene ci fosse qualcosa che non rispondesse sempre ai miei gusti letterari, Virginia poteva far parte dei miei autori preferiti. Sarà il tipo di narrazione che chiama al modernismo più puro, sarà la sperimentazione, saranno i personaggi tormentati che fanno di tutto pur di trattenere a sé la vita fino all’ultimo – come Virginia Woolf stessa, d’altronde -, sarà la letterarietà che pervade le sue pagine.


È per tutti questi sarà che sono anni che vorrei approfondire la lettura di romanzi e saggi nei miei spazi online. Finalmente, dopo aver trovato il tempo e il modo di farlo a mio modo, ti presento Le ore con Virginia, un breve percorso di lettura condivisa con approfondimenti. 

Dal 25 gennaio al 28 marzo 2023 (data di nascita e di morte della scrittrice) leggerò insieme a chi si vorrà unire due libri, Una stanza tutta per sé e Orlando. La scelta è stata dettata dalla necessità di trovare due testi che rappresentassero in tutto quello che Virginia Woolf rappresenta oggi e sempre ha rappresentato. Un femminismo mai del tutto nascosto ma inserito consapevolmente tra le pagine di ciò che scriveva e che ancora oggi parla a tutte e tutti noi. Ma non solo. Una stanza tutta per sé è un saggio profondamente politico e allo stesso tempo letterario. Orlando è una dichiarazione d’amore audace verso l’amante donna e verso l’immortalità della letteratura.

In questi due mesi di letture vi proporrò contenuti di approfondimento e consigli di lettura alla portata di tutti, niente di troppo accademico ma necessario per comprendere questi due testi. I contenuti aggiuntivi comprenderanno anche letture dai diari della scrittrice riguardo il processo creativo dei due testi e scritti da parte di coloro che hanno vissuto Virginia Woolf da fuori, come il marito Leonard Woolf (un testo imprescindibile è La mia vita con Virginia pubblicato in Italia da Lindau).

Oltre ai contenuti di approfondimento ci ritroveremo su Instagram con due dirette in cui vi aggiornerò sulle letture principali e quelle più critiche. La prima data è fissata al 14 febbraio in cui parleremo di Una stanza tutta per sé. La seconda data, invece, è il 7 marzo durante la quale affronteremo Orlando.

Un romanzo e un saggio per conoscere più approfonditamente una delle autrici più grandi del 1900. Se leggerete insieme a me fatemelo sapere e seguite l’hashtag #leoreconVirginia su Instagram per rimanere aggiornati.

Buona lettura!

martedì 27 dicembre 2022

dicembre 27, 2022

Il regalo di Faulkner con "Luce d'agosto"


 

Seduta sul bordo della strada, guardando il carro che viene su per la salita verso di lei, Lena pensa, 'Arrivata fino a qui dall'Alabama: una bella distanza. Tutto a piedi fin dall'Alabama. Una bella distanza'. Pensando non è neanche un mese che sono in viaggio e sono già in Mississippi, più distante da casa di quanto sono mai stata. Ora sono più distante dalla segheria di Doane di quanto sono mai stata da quando avevo dodici anni

 

Ambientato nella fittizia contea di Yoknapatawpha, Luce d’agosto si apre con un viaggio dove il Mississippi, luogo preferito da Faulkner per ambientare le sue storie, sembra essere solo una stazione di passaggio piuttosto di quella di arrivo. Pubblicato nel 1932, il romanzo è uno dei grandi titoli dell’autore sebbene ricordi solo in parte le grandi e complicate narrazioni dei due romanzi precedenti, Mentre morivo (1930) e il più celebre L’urlo e il furore (1929). Con la seconda lettura dell’anno, il Bright Lights Bookclub si avventura in uno spazio non denominato con precisione né temporalmente collocato con esattezza, tra le casupole fatiscenti di contadini, pastori, e liberi cittadini di Jefferson, capoluogo della contea di Yoknapatawpha.


Il romanzo, narrato in una terza persona da cui spesso si affacciano commenti diretti degli stessi personaggi, si apre con Lena Grove, una giovane ragazza incinta con una missione ben precisa: trovare un tale Lucas Burch, uomo di cui è innamorata e padre della creatura che porta in grembo. Nel “caldo, immobile silenzio del pomeriggio di agosto che sa di pino e di mosto” (15) Lena affronta con tenacia e coraggio un viaggio che si prospetta faticoso, non solo per via della percorrenza tra gli stati, ma anche a causa della sua permanenza a Jefferson. Una volta giunti in città, infatti, il lettore viene posto di fronte a una verità narrata attraverso le timide parole di Byron Bunch, che lavora alla segheria della città insieme a quello che sembra essere proprio Burch sotto un altro nome.


La narrazione cambia di continuo punto di riferimento, tornando a Lena solo nelle parti finali. Luce d’agosto è infatti un romanzo piuttosto corale da questo punto di vista, poiché cede la narrazione degli eventi, presentati solo parzialmente, a più voci e, soprattutto a occhi diversi. Veniamo così a conoscenza del passato tormentato del reverendo Hightower e della moglie adultera e poi suicida, ma soprattutto di uno dei personaggi forse meglio riusciti della narrativa faulkneriana. Si tratta di Joe Christmas, un uomo la cui origine è un mistero, la cui discendenza di sangue – e quindi razziale, – è in bilico tra ciò che in quel sud degli Stati Uniti provato dalle leggi segregazioniste è accettabile e ciò che non lo è. 


La storia di Christmas si intreccia a quella di Lucas Burch, ma è di fondamentale importanza in un romanzo che pone implicitamente al suo centro il rapporto identitario con sé stessi e quello tra comunità bianca e quella nera. I rapporti razziali sono rappresentati dalla lotta costante che Christmas vive dentro di sé e dalle conseguenze che un apparente omicidio ha sulla comunità tutta di Jefferson. Attraverso il personaggio di Christmas e le vicende che, come un domino, sembrano susseguirsi a catena nella sua vita, Faulkner riesce a ritrarre un quadro molto chiaro della “maledizione” del razzismo nel sud, un rapporto tra bianchi e neri che sembra essere dalla notte dei tempi destinato a restare subalterno.


Una razza condannata alla maledizione di essere in eterno per la razza bianca la maledizione e la condanna per i suoi peccati. Ricordatelo. La sua condanna e la sua maledizione. In eterno. Mia. Di tua madre. Tua, anche se sei solo una bambina. La maledizione di ogni bambino bianco, mai nato o che nascerà. Nessuno può sfuggirla

 

La condanna subita dai neri e imposta dai bianchi raggiunge il climax verso la fine del libro, e viene raccontato quasi a sottovoce, per sentito dire, mentre Lucas Burch si dà alla fuga da Lena e dalla legge di Jefferson. Nel frattempo, Byron Bunch e il reverendo Hightower si fanno carico della bomba che sta per esplodere nella comunità. Da una parte Hightower che, reduce da una storia familiare altrettanto complessa che si intreccia con la storia della schiavitù nel sud, si eleva a moralizzatore sebbene anche lui rimanga senza risposte effettive all’omicidio. Dall’altra Bunch, finito per innamorarsi di Lena ma incapace di pronunciare non solo l’amore che prova per lei ma anche semplici parole su ciò che sta succedendo a Jefferson.


La pace non è così frequente. Per cui si agitavano e facevano capannello, gridavano chiedendo vendetta, convinti che le fiamme, il sangue, quel corpo che era morto tre anni prima e soltanto adesso aveva ricominciato a vivere chiedessero vendetta, non sapendo che sia la rapita intima furia delle fiamme sia l'immobilità del corpo asseveravano il raggiungimento di una regione al di là delle ferite e del male dell'uomo.

 

La complessità delle pagine di Faulkner viene mascherata da una prosa questa volta apparentemente lineare – ma nemmeno troppo – e dà la possibilità a Faulkner di esplorare territori geografici, simbolici e sociali familiari da una prospettiva ancora diversa.


Per questo, il grande regalo che Faulkner fa ai suoi lettori riguarda proprio passato, il proprio, quello del sud, che ancora una volta viene filtrato da occhi nuovi, diversi. Per quanto tragico, controverso e orribile possa essere, il passato non può essere cancellato e il peso da portare è umano, indelebile e eterno.

martedì 22 novembre 2022

novembre 22, 2022

Il Mississippi di Jesmyn Ward. "Salvare le ossa".


Sono i corpi a raccontare storie.


Autrice:
Jesmyn Ward
Titolo: Salvare le ossa
Titolo originale: Salvage the Bones
Edizione: NNEditore, 2018
Traduzione: Monica Pareschi

Esch è un’adolescente afroamericana, appassionata di storie e libri che legge grazie alle assegnazioni scolastiche con trasporto e una forte immedesimazione. L’estate del 2005, anno del tragico uragano Katrina, a Esch è stato assegnato Mythology, una raccolta di racconti della mitologia greca riadattati per i ragazzi. Esch ne rimane stregata, in particolare si interessa della storia degli Argonauti e della figura di Medea, audace e scaltra donna protagonista di una serie di miti tragici e d’amore e che arriva a uccidere i propri figli pur di assicurare che il suo sposo, Giasone, non possa avere discendenza. Esch si lascia trasportare dalle storie d’amore e passioni che vengono raccontate in quel libro, immaginando di poter essere amata come le donne protagoniste di quelle storie e di avere la loro audacia.

La storia di Salvare le ossa viene raccontata proprio da Esch in prima persona e si concentra nei dodici giorni precedenti al disastro dell’uragano Katrina tra il Mississippi e la Louisiana. Come per tutta la trilogia di Bois Sauvage, anche Salvare le ossa viene ambientato, per l’appunto, nella fittizia Bois Sauvage, una cittadina con una forte comunità afroamericana di cui la famiglia di Esch e i suoi amici fanno parte.

La storia di Salvare le ossa si svolge in un Mississippi che Ward conosce molto bene e in una realtà sociale altrettanto familiare. La famiglia di Esch è povera, e si tratta di una povertà che permea silenziosamente gli eventi narrati in queste pagine. Non ingombra, ma è sempre presente, violenta a volte come la potenza creatrice e distruttrice della natura. Non è un caso che i due elementi naturali che incorniciano tutto il romanzo dall’inizio alla fine siano la nascita e l’uragano.

Il romanzo si apre, infatti, con il parto sofferto di China, il cane del fratello di Esch, che la ragazza associa più a un combattimento, rimuovendo così ogni alone di romanticismo legato a quest’atto. Tuttavia, Esch non riesce a separare del tutto la nascita di una nuova vita dalla delicatezza a cui viene stereotipicamente associata. Allo stesso modo in cui racconta il parto di Junior, il più piccolo dei suoi fratelli, che “era viola e azzurro come un’ortensia: l’ultimo fiore di mamma” (10), anche China finisce per dare alla luce “un bulbo rosso-violaceo”, che Esch associa alla fioritura (12). La prospettiva ingenua e edulcorata di Esch sul parto, la nascita e la maternità inizia a sgretolarsi nell’istante in cui, a poche pagine dall’inizio del libro, la protagonista scopre di essere incinta. Con l’imminenza dell’uragano alle porte del Bayou e della “Fossa”, l’avvallamento tra i boschi che Skeet, Esch, Junior e il padre chiamano casa, la ragazza sarà costretta a confrontarsi con un corpo in continuo cambiamento, un corpo che racconta la sua storia

Sono inginocchiata sopra il lavabo. Il lavandino è di metallo duro, e dove si incassa nel mobiletto di plastica c’è un piccolo rialzo che si incide nelle mie ginocchia. Voglio controllare quanto sono ingrassata, per rendermi conto se si vede. […] devo vedermi con gli occhi, non solo con le mani, le mani che durante il sonno tengono la pancia e che quando mi sveglio trovo sempre infilate sotto l’elastico dei pantaloni. 

La storia apparentemente silenziosa, sofferta, degli afosi giorni che precedono l’uragano viene incorniciata da tutti gli elementi appena menzionati, che riguardano il rapporto con il proprio corpo, la propria femminilità – e cosa questa significhi per un’adolescente afroamericana di una famiglia povera -, la maternità e l’aspetto sociale che tutte queste tematiche portano inevitabilmente in superficie.

Esch sembra essere alienata, distante da sé e dal proprio corpo quando inizia il romanzo. La mancanza di romanticismo e di favola nell’atto sessuale sembra essere il motivo che spinge la ragazza ad avere quei comportamenti promiscui con i ragazzi che le ronzano attorno e che finiranno per incatenarla al proprio corpo con la scoperta della gravidanza. Anche nell’ignoranza delle conseguenze di questi comportamenti, Esch rimane incastrata nella povertà economica della sua famiglia e sembra uscirne solo quando, da narratrice, assume atteggiamenti quasi mistici, veggenti. Elevando il suo stesso tono narrativo, Esch si mette in fuga dalla realtà che vive quotidianamente per vivere un sollievo che, anche se spesso sfocia nell’alienazione, sa di poter trovare solo nelle sue storie mitiche. 

La gravidanza mette Esch in condizione di vedersi e vedere il suo corpo crescere, cambiare, assumere quelle forme tecnicamente femminili che la ragazza non aveva mai considerato. La maternità, anche quella mancata visto che Esch e i suoi fratelli sono orfani di madre, si fa strada nel romanzo come una presenza che non si palesa mai del tutto e che quando lo fa diventa quasi distruttiva. La madre di Esch è morta mettendo al momento Junior e a un disastro naturale la cui grandezza è solo vagamente percepibile viene dato il nome di una donna, Katrina. La potenza della natura diventa così creatrice e distruttrice allo stesso tempo e culminerà proprio con l’arrivo dell’uragano.

Se da una parte Salvare le ossa assume toni molto simili al misticismo delle pagine di Mentre morivo di Faulkner che Esch legge durante l’estate dell’uragano, elevando così il romanzo a una sfera decisamente poetica molto forte, la realtà sociale degradante di Ward non rimane in secondo piano. Il tema sociale nel romanzo è molto sottile, presentato in maniera che rimanga tra le righe letteralmente, che non venga nominato esplicitamente ma suggerito da alcuni elementi appena nominati. La fossa, il luogo dove la famiglia di Esch vive da generazioni, è il simbolo dell’avvallamento sociale che la comunità nera di Bois Sauvage è costretta a vivere ogni giorno e che, quasi per natura del territorio, sprofonda sempre di più verso il degrado e l’oblio. 

Il giorno prima di un uragano arriva sempre una telefonata. Quando era viva mamma, rispondeva lei. Sono quelli del governo, chiamano tutti gli abitanti delle zone minacciate. […] Non ricordo cosa dice esattamente, qualcosa come: «Ordine di evacuazione. L'arrivo dell'uragano è previsto per domani. Il governo declina ogni responsabilità nel caso in cui decidiate di rimanere nelle vostre case e non abbiate ancora evacuato la zona. Siete avvertiti». Segue una lista di quelle che «potrebbero essere le conseguenze delle vostre azioni». E non so se lo dice proprio in maniera esplicita, ma il senso è questo: «Rischiate di morire». 

Come giustamente afferma Serena Daniele, editor di NNEditore, Salvare le ossa è l’epica degli ultimi, coloro che vengono lasciati ai margini anche in situazioni tragiche nazionali come l’uragano. Non è un caso che quando il governo chiama i cittadini della zona per avvertire dell’imminente arrivo di Katrina, la responsabilità della fuga e della propria sopravvivenza sembri quasi essere addossata agli stessi abitanti della zona. Che possano permettersi o no di fuggire, di trovare un riparo, se muoiono è solo colpa loro. Come viene narrato in un altro episodio del romanzo, i bianchi a Bois Sauvage vengono solo in vacanza, i neri invece popolano la comunità e la mantengono viva, seppur in bilico tra assi di legno marce e furgoni abbandonati. La mitologia del romanzo in questo senso diventa un contraltare alla parte sociale degradante, ingiusta e razzializzata della realtà e eleva la narrazione quasi a un atto di purificazione dalla quotidianità.

L’uragano, Katrina, forza distruttrice della natura spazza via tutto, anche l’alienazione dalla realtà del quotidiano. Monica Pareschi, traduttrice della trilogia di Bois Sauvage, afferma che “[u]na riconciliazione degli opposti è possibile solo in un inventario finale di ciò che è inevitabilmente rotto, perduto, frammentato, distrutto, e nessuna riparazione sarà in grado di occultare le fratture.” Niente di più vero per un romanzo che ci tiene col fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina, con la consapevolezza che qualcosa di grosso, maestoso, distruttivo sta arrivando e che scoperchierà tutto ciò che stiamo cercando disperatamente di evitare di vedere.

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